lunedì 22 aprile 2013



Storia dell'Italia fascista                                                                          







La storia dell'Italia fascista (richiamata anche con le espressioni ventennio fascista o semplicemente ventennio) comprende quel periodo storico italiano che va dalla presa del potere di Benito Mussolini, datata 30 ottobre 1922, sino alla fine della sua dittatura, avvenuta il 25 luglio 1943.
Per estensione, solitamente a questa definizione si fa riferire tutto il periodo della storia d'Italia che va dalla fine della prima guerra mondiale sino al termine della seconda guerra mondiale[senza fonte] o, più diffusamente, il ventennio 1925-1945, poiché nel 1925 furono dichiarati illegali tutti i partiti tranne il Partito Nazionale Fascista (PNF) e nel 1945 si dissolse la Repubblica Sociale Italiana (RSI).




Il primo dopoguerra

All'indomani della Grande Guerra l'Italia si trovò in una situazione economica, politica e sociale precaria e difficile. Il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre 650.000 caduti e circa un milione e mezzo tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse nel Nord-Est del Paese, divenuto fronte bellico, con il dislocamento e, sovente, la perdita della casa di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggite dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.
Il sorgere del Regno di Jugoslavia alle frontiere orientali pose una pesante e decisiva pietra tombale sui sogni di riunificazione nazionale italiana, con l'acquisizione dei territori promessi ed inclusi nel Patto di Londra: gli altri Alleati si erano appoggiati alle proposte del presidente USA Woodrow Wilsonper assegnare al Regno di Jugoslavia stesso (in slavo SHS, Srbija-Hrvatska-Slovenija) la DalmaziaFiume (che secondo il trattato del 1915 sarebbe dovuto restare all'Austria-Ungheria o, in subordine, ad un piccolo Stato croato) e l'Istria Orientale. La città di Fiume - dal canto suo - aveva espresso fin dagli ultimi fuochi della guerra la volontà di essere riunita all'Italia, ponendo così il governo di Roma nell'imbarazzo di dover accettare i voti della cittadinanza fiumana e contemporaneamente entrare in urto con FranciaGran BretagnaStati Uniti d'America e - ovviamente - Regno jugoslavo. Infine, nonostante la fine delle ostilità con gli Imperi centrali, l'Italia restava coinvolta nella guerra in Albania, dai contorni incerti e dagli obiettivi ancora più incerti, mentre il Montenegro, stato vincitore della guerra e col quale l'Italia per motivi dinastici e strategici intratteneva rapporti privilegiati, veniva annesso alla Jugoslavia con il consenso delle altre potenze alleate, ciò che venne recepito come un'altra grave ferita alla politica adriatica italiana.
Alla situazione politica internazionale difficile, faceva da contraltare una situazione economica interna drammatica: l'Italia dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone ed aveva contratto pesantissimi debiti con gli Stati Uniti. Le casse statali erano quasi vuote anche perché la lira durante il conflitto aveva perso buona parte del suo valore, con un costo della vita aumentato di almeno il 450%.
Alla mancanza di materie prime, faceva anche seguito la progressiva smobilitazione del Regio Esercito (dopo averne impiegato una grandissima parte come manodopera per le immediate necessità del dopoguerra e nel primo raccolto del 1919) e la fine della produzione bellica, che implicava una riconversione delle fabbriche. La mancanza di un solido mercato interno e la crisi di quelli esteri impediva - tuttavia - che la produzione potesse trovare sfogo, e di conseguenza molte manifatture semplicemente chiusero.
In breve, inoltre, l'Italia si trovò ad affrontare il problema dell'assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell'industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati. Molte delle promesse fatte durante la guerra a costoro (come l'espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocando malcontento e delusione. L'attrito fra le masse di ex combattenti e quelle operaie si delineò immediatamente, con l'accusa nei confronti dei secondi di essersi "imboscati" e nei primi di essere stati "servi della guerra borghese".
In un primo momento ciò provocò un'importante crescita di partiti e movimenti di sinistra, in particolar modo del Partito Socialista Italiano, la cui componente minoritaria rivoluzionaria era galvanizzata dal successo della Rivoluzione russa. La fine della guerra, delle restrizioni politiche e della censura permise di riprendere le attività propagandistiche e sindacali. A destra, invece, le formazioni nazionaliste ed interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace, mentre attorno ai circoli dannunziani nasceva la locuzione "Vittoria mutilata", che sarebbe divenuta la parola d'ordine degli insoddisfatti.
Lo Stato si venne quindi a trovare sotto un triplice attacco: dall'estero, con l'evidente tentativo delle potenze alleate di ridimensionare la portata della vittoria e delle rivendicazioni italiane a vantaggio del Regno di Jugoslavia. Dalle formazioni socialiste e sindacali, che iniziarono una campagna para-rivoluzionaria, soprattutto attraverso una durissima campagna di scioperi. Dalle formazioni nazionaliste, la cui campagna denigratoria verso l'azione del governo sarebbe poi culminata nel settembre 1919 con l'Impresa di Fiume.
A risentire di questa instabilità fu soprattutto l'ordine pubblico, con l'acuirsi del radicalismo e della violenza, l'urto fra le compagini socialiste e internazionaliste (compresse durante gli anni del conflitto ed ora libere di agire nuovamente) e quelle nazionaliste ed interventiste.

Nella foto Mussolini sul Carso

Nascita del fascismo



Immediatamente prima della fine del conflitto mondiale, Benito Mussolini, uno degli esponenti più importanti[1] dell'Interventismo, agì cercando varie sponde per dar vita ad un movimento che imprimesse alla guerra una svolta rivoluzionaria. Tuttavia i suoi sforzi riuscirono a concretizzarsi solo sei mesi dopo il termine delle ostilità, quando un piccolo gruppo di reduci ed intellettuali interventisti, nazionalisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, si radunò in un locale di Piazza San Sepolcro a Milano, dando vita ai Fasci di Combattimento, il cui programma si configurava come rivoluzionario, socialista e nazionalista ad un tempo.
Dagli strati sociali più scontenti e soggetti alle suggestioni della propaganda nazionalista che, a seguito dei trattati di pace, si infiammò ed alimentò il mito della Vittoria mutilata, emersero organizzazioni di reduci e, in particolare, quelle che raccoglievano gli ex-arditi. Quest'ultime, riconosciute subito dai comandi militari come fonte di turbolenza politica, furono sciolte e i membri congedati, restituendo alla vita civile decine di migliaia di ex soldati agguerriti e portatori di un'ideologia aggressiva, violenta e gerarchizzante. Fra costoro, e fra gli altri congedati al malcontento generalizzato, si faceva largo un risentimento causato dal non aver ottenuto un adeguato riconoscimento per i sacrifici, il coraggio e lo sprezzo del pericolo dimostrati in anni di duri combattimenti al fronte e per le offese subite dai militanti socialisti, giunte fino alla bastonatura degli ufficiali in uniforme e all'insulto nei confronti dei decorati che ostentassero le medaglie. Come numerosi storici hanno fatto notare (ad esempio Federico Chabod) è poi soprattutto dalla piccola borghesia, in particolare quella rurale, che il primitivo fascismo attinge i suoi militanti. Questo strato sociale - tendenzialmente costretto in Italia da un proletariato industriale ed agricolo più o meno organizzato e rappresentato da partiti di massa (PSI e popolari) e sindacati e l'alta borghesia, protagonista ed egemone dell'Italia del periodo liberale - con la guerra aveva acquisito un ruolo fondamentale, fornendo alle Forze Armate il nerbo degliufficiali di complemento. In qualche misura, a fronte dunque delle altre classi sociali, già organizzate o rappresentate, la piccola borghesia nel dopoguerra si trovò priva di referenti e minacciata di essere riportata ad un ruolo di secondo piano, minacciata com'era dal basso dalle agitazioni socialiste e, dall'alto, dal grande capitalismo che prometteva di assorbirne mercati e risorse.
La frustrazione per questa situazione fu terreno fertile per la fondazione il 23 marzo 1919 a Milano del primo fascio di combattimento, adottando simboli che sino ad allora avevano contraddistinto gli arditi, come le camicie nere e il teschio.




FOTO 2 Mussolini direttore dell'Avanti

Biennio rosso, Fiumanesimo e "Rivoluzione fascista"

Nel movimento fascista, oltre ad arditi, futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari ed ex combattenti d'ogni arma confluirono successivamente anche elementi di dubbia moralità ed avventurieri. Appena 20 giorni dopo la fondazione dei Fasci le neonate squadre d'azione si scontrarono con i socialisti e assaltarono la sede del giornale socialista Avanti!, devastandola: l'insegna del giornale fu divelta e portata a Mussolini come trofeo. Nel giro di qualche mese i Fasci si diffusero in tutta Italia, sebbene con una consistenza assai scarsa.
Il 23 giugno 1919 si insediò il governo di Francesco Saverio Nitti, sostituendo il dimissionario Vittorio Emanuele Orlando, dopo le delusioni seguite ai trattati di pace. Le politiche intraprese da Nitti sollevarono un fortissimo malcontento, soprattutto fra militari, reduci congedati e nazionalisti.
Il 19 settembre 1919Gabriele d'Annunzio ruppe gli indugi e alla testa di reparti ammutinati del Regio Esercito marciò su Fiume dove,manu militari, instaurò un governo rivoluzionario con l'obiettivo di affermare l'unione all'Italia del comune carnero. Questa azione fu immediatamente esaltata dal movimento fascista, anche se Mussolini non offrì - né avrebbe potuto offrire - alcun reale appoggio alla causa dei legionari.
Il 16 novembre del 1919, le elezioni (per la prima volta secondo il sistema proporzionale) videro il trionfo dei due partiti di massa: il Partito Socialista che si affermò primo partito con il 32% dei voti e 156 seggi e il neonato Partito Popolare di don Sturzo che, alla sua prima prova elettorale ottenne il 20% dei voti e 100 seggi. Il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.
In seguito alla durissima sconfitta elettorale, Mussolini meditò seriamente l'abbandono della politica,[3] nonostante la sbandierata esistenza di 88 Fasci combattenti con 20.000 iscritti; cifra che alcuni storici ritengono viziata da eccessivo ottimismo. In ogni caso, sul Popolo d'Italia del 23 marzo 1929, il segretario del PNF Augusto Turati, affermò che al 31 dicembre 1919 i Fasci in Italia erano 31 con solo 870 iscritti.
I risultati elettorali non garantirono al paese la stabilità necessaria e il PSI, che aveva il maggior peso, continuò a rifiutare alleanze con i partiti "borghesi". L'iniziativa politica dunque rimase nelle mani dei movimenti sindacali rappresentati dalle leghe socialiste e popolari che lanciarono una escalation di scioperi e occupazioni, storicamente nota come "Biennio rosso", culminata nell'estate del 1920 in una occupazione generalizzata di terreni agricoli, opifici e installazioni industriali in quasi tutto il Paese, con esperimenti di autogestione, autoproduzione e la creazione di consigli di fabbrica sul modello dei soviet.
In particolare le occupazioni di terreni agricoli convinsero molti latifondisti, principalmente in Emilia, nell'alta Toscana e nella bassa Lombardia, a svendere cascine e fattorie a ex-mezzadri, fattori o piccoli coltivatori diretti. Fu questa la nuova categoria di proprietari terrieri, ben più decisa a difendere i propri beni dalle occupazioni rispetto ai precedenti latifondisti, alla quale Mussolini si rivolse per dare consistenza al movimento fascista, sposandone appieno le necessità.
Così, mentre i socialisti erano dilaniati dalle diatribe interne e dalla concorrenza sindacale delle leghe bianche dei Popolari sturziani, schiere di appartenenti alla piccola borghesia agraria, artigiana o del commercio, allarmati dalle occupazioni e dai disordini, confluirono nel movimento guidato da Mussolini. In pochi mesi si costituirono in Italia oltre 800 nuovi Fasci, con circa 250.000 iscritti, i quali diedero vita alle squadre d'azione, dette spregiativamente "squadracce" dagli avversari politici, che contrastarono le leghe rosse e bianche, durante gli scioperi o le azioni di occupazione, in un diffuso clima di violenza politica.
Tra le squadre fasciste dell'Italia meridionale militavano anche alcuni delinquenti. Particolarmente a Napoli, dove la centralista organizzazione camorristica ottocentesca stava attraversando un fase di anarchia, alcuni camorristi si dettero anima e corpo alla causa fascista, intravedendo la possibilità di carriera e di cancellazione dei reati precedenti. Ad esempio, come nel caso di Guido Scaletti, piccolo camorrista dei Quartieri Spagnoli, che fondò il primo sindacato padronale partenopeo, o di Enrico Forte che per i suoi servigi di squadrista fu ricompensato, nel 1924, con la direzione della "Manifattura Tabacchi". Un tempo preso il potere, il fascismo, abilmente usò i camorristi per controllare e reprimere l'attività di delinquenza comune, in cambio dispensando piccole cariche pubbliche, posti di lavoro e, soprattutto, tollerando il contrabbando. L'attività di Polizia e Carabinieri venne intensificata e diretta verso i malavitosi che non collaboravano con il regime. Nella zona di Aversa, dove si era formata una struttura camorristica potente e concorrente a quella napoletana, nel 1927 le forze dell'ordine operarono la maggiore retata anticamorra della storia, con 4.000 arrestati.
La direzione velleitaria e confusa delle occupazioni, che aveva mostrato l'incapacità delle forze politiche più radicali a sviluppare una reale e progressiva azione rivoluzionaria, fu immediatamente chiara a molti politici, in particolar modo a Gramsci e a Giolitti, subentrato al secondo governo Nitti.
Nel settembre 1920 Giolitti riuscì a spezzare il fronte occupazionista, attraverso la concessione di limitati progressi salariali, ottenendo il ritorno della legalità. Stabilita una temporanea pace sociale interna, affrontò la questione di Fiume, deciso a risolvere il problema internazionale della Reggenza del Carnaro. Dopo serrate trattative fra Italia, Iugoslavia e D'Annunzio, Giolitti diede il via all'azione militare, volta a sgomberare con la forza i legionari dal comune carnero, culminata con Natale di sangue del 1920.
La componente militare largamente prevalente nelle squadre conferì a queste una netta superiorità negli scontri coi socialisti, i popolari e i sindacati non fascisti, che ben presto - sebbene notevolmente più numerosi - subirono l'urto delle camicie nere. La sistematica campagna fascista di distruzione dei centri di aggregazione socialista, popolare e sindacale di intimidazione e aggressione dei loro militanti - assieme alla contemporanea politica sotterranea condotta da Mussolini nei confronti dei partiti moderati e della destra - portarono il socialismo ad una crisi, mentre parallelamente cresceva la forza numerica e il morale dei Fasci di Combattimento. Così, mentre nel 1921 il Partito Socialista Italiano si disgregava in due successive scissioni, dando vita alPartito Comunista d'Italia), il 7 novembre 1921 nasceva il Partito Nazionale Fascista (PNF), trasformando il movimento in partito, abbandonando le posizioni del sindacalismo rivoluzionario, accettando alcuni compromessi legalitari e costituzionali con le forze moderate e distaccandosi sostanzialmente dalla linea politica fondativa del movimento, sancita nel Programma di San Sepolcro del 1919. In quel periodo il PNF giunse ad avere ben 300.000 iscritti (nel momento di massima espansione il PSI aveva superato di poco i 200.000 iscritti).
Dal punto di vista organizzativo, al "gruppo di Milano" - nucleo originario del Fascismo - si aggiunse una componente rurale e agraria, forte dell'appoggio dei latifondisti e possidenti terrieri emiliani,pugliesi e toscani. Proprio in queste regioni le squadre guidate dai ras furono più determinate a colpire i sindacalisti, i popolari e i social-comunisti, e le masse rurali organizzate che avanzavano rivendicazioni sociali, politiche ed economiche, intimidendoli con la famigerata pratica del manganello e dell'olio di ricino, o addirittura commettendo omicidi che restavano a volte impuniti. In questo clima di violenze, alle elezioni del 15 maggio 1921 i fascisti riuscirono a portare in parlamento i loro primi deputati, fra cui Mussolini.
La celebrità del partito crebbe ancora quando i sindacati non fascisti proclamarono per il 1º agosto 1922 uno sciopero generale come ritorsione per degli scontri avvenuti a Ravenna: i fascisti per ordine di Mussolini sostituirono gli scioperanti, con pessimi risultati produttivi, nel tentatitivo di far fallire la protesta. Sempre nell'agosto del 1922 gli abitanti di Parma, con epicentro nel quartiere popolare di Oltretorrente, organizzati dagli Arditi del Popolo, comandati da Guido Picelli e Antonio Cieri riuscirono fieramente a resistere alle squadre fasciste guidate da Italo Balbo, futuro "trasvolatore atlantico". Fu dell'ultima resistenza all'incalzare del fascismo.

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Propaganda fascista: a sinistra la legenda: Le malefatte del bolscevismo nel 1919, a destra Le cose ben fatte del fascismo nel 1923




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